Descrizione Progetto

Sulla soglia tra segno e materia
Nota per Filippo Parroni e Giovanni Pernazza
Massimo Bignardi

Non penso che si possa misurare una distanza tra il disegno e la pittura, tanto meno con l’immediata sintesi di un progetto d’architettura. Tale impossibilità non è dettata unicamente dalla capacità che l’immaginazione mette in campo rendendosi palese nell’immagine, bensì dal desiderio che essa ha, condividendo quanto sosteneva Sartre, di concretare una forma della coscienza.
La riflessione che Filippo Parroni e Giovanni Pernazza, due giovani architetti operativi nell’ambito romano, propongono in questa mostra, investe proprio tale aspetto dell’arte, orientando la prospettiva dell’analisi verso quello che nel pensiero sartriano, assume il senso dell’essere-per-sé, vale a dire il distacco che i due neofiti artisti misurano tra la realtà e la nullificazione di essa e della coscienza.
Lo fanno rileggendo la tragedia I sette contro Tebe, di Eschilo seguendo, potremmo dire, un analogo percorso immaginativo chiamando in causa, però, esperienze e pratiche diverse tra loro: da una parte la pittura di Parroni, densa, data con spessori di colore dagli echi informali, dall’altra il segno netto, assoluto di Pernazza pronto a costruire forme di solidi geometrici o che si richiamano ad essi.
Il tema centrale, sono gli stessi artisti a chiarirlo, è la ‘porta’ e il dizionario di ‘prefigurazioni’ che essa sollecita: le enucleano nei concetti di confinare, passare, limitare, aprire, chiudere, attraversare, tracciare, chiamando in causa tempi di una narrazione protratti all’infinto, dunque di azioni che non affermano un tempo presente o passato.
Tra le due esperienze, dicevo poc’anzi, vi sono diversità linguistiche ma anche tecniche, proprie di pratiche creative diverse che, in piena libertà, contribuiscono maggiormente a rendere coeso il progetto. Parroni esplicita il senso di spazi confinanti e contigui: lo fa affidandosi al contrasto di luminosità tra un nero lucido e uno opaco. È la luce che i piani riflettono o assorbono che origina un ‘luogo’ dell’esistenza, nel quale lo sguardo del fruitore può temporaneamente sostare, tanto quanto basta per sollecitare il suo ‘passo’ immaginativo ed andare oltre. La materia, il leggero spessore della pasta cromatica, consente alla luce di poter orchestrare dei movimenti in superficie; ciò avviene essenzialmente in lavori come 3775 room with Uncle Ben, 4774 l’attesa nei quali l’artista si serve di ulteriori elementi per rendere maggiormente palese il senso dell’attraversare. L’ordinata griglia di fori dai quali fa fluire la pasta cromatica, oppure ne lascia palesare il vuoto che si apre oltre, al di là della superficie, offrono all’occhio percettivo la possibilità effettiva di un passaggio verso i territori della coscienza, verso l’enigma che l’esperienza creativa pone.
Diversa, ma non in contrapposizione, è l’attenzione analitica che Pernazza rivolge al segno e alla relazione che esso instaura con il bianco del foglio: il fitto o meno reticolo di segni intrecciati – memoria dell’arte incisoria – che l’artista elabora con estremo rigore, oltre a formulare l’andamento di piani prospettici che costruiscono solidi geometrici, si fa gradiente di luminosità, disperdendola nei punti di fuga di sbilenche prospettive, di costruzioni che Pernazza gestisce con estrema abilità compositiva. A volte l’articolazione a zig zag, com’è per gamma o per delta, due opere nelle quali si scorge una particolare attenzione per la scansione di chiaroscuri che dettano la prospettiva nell’infinito spazio bianco. Tale articolazione mi sollecita il ricordo di impianti escheriani, in tal senso penso alle scale che si arrampicano nel paesaggio, al gioco plastico, anch’esso affidato a contrasti polari del bianco e del nero, della celebre Metamorfosi, del 1937.
“Solo, per evitare ogni ambiguità – suggerisce ancora Sartre –, ricordiamo qui che un’immagine non è altro che un rapporto”.